Si segnala la pronuncia numero 29009, depositata il 4 luglio 2014, in tema di illecita concorrenza con minaccia o violenza ex art. 513-bis c.p. con la quale i giudici della seconda sezione penale hanno preso posizione in ordine al significato da riconoscere all’espressione «atti di concorrenza».
Ricordiamo che la disposizione citata recita: «chiunque nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se gli atti di concorrenza riguardano un’attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo Stato o da altri enti pubblici.»
L’interpretazione dell’espressione «atti di concorrenza» è stata oggetto di dibattito all’interno della giurisprudenza di legittimità e, con la pronuncia in questione, la Corte ha ritenuto di condividere il prevalente e più recente orientamento ai sensi del quale l’ art. 513-bis c.p. punisce soltanto le condotte illecite tipicamente concorrenziali (es: boicottaggio, storno di dipendenti o rifiuto di contrattare) attuate con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, ma non anche le condotte intimidatorie finalizzate ad ostacolare o coartare l’altrui libera concorrenza poste in essere al di fuori dell’attività concorrenziale.
Gli atti di violenza o minaccia non tipicamente concorrenziali – con riferimento ai quali, cioè, la limitazione della concorrenza è solo il fine perseguito dall’agente – non rientrerebbero, dunque, nell’art. 513-bis c.p., ferma restando l’eventuale riconducibilità di queste ad altre fattispecie di reato (es: minaccia o estorsione).
E’ stato quindi respinto il diverso orientamento secondo il quale, ai fini dell’integrazione del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, configurerebbe atto di concorrenza illecita qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o produttiva. Questa interpretazione – pur sostenuta in alcune pronunce – non appare conforme al testo normativo, inteso a distinguere gli atti di concorrenza dagli atti di violenza o minaccia, e pone problemi di violazione del principio di legalità e tassatività, non potendosi eliminare dall’elemento oggettivo dell’incriminazione il nucleo fondamentale, cioè, la realizzazione di un atto di concorrenza (tipico).
Cassazione Penale, Sez. II, 4 luglio 2014 (ud. 27 maggio 2014), n. 29009