Il Giudice di Legittimità si pronuncia sulla questione se la resistenza ai sensi dell’art. 337 c.p., da parte del privato e rivolta verso più pubblici ufficiali, configuri un unico reato o una pluralità di fattispecie criminose. Si rammenti che la norma citata punisce il soggetto agente il quale “usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio […]”.
Il Collegio prende atto della sussistenza di una tesi in giurisprudenza (Cass. pen., sez. VI, n. 26173/2012; cfr. Cass. pen., sez. VI, n. 38182/2011 e Cass. pen., sez. VI, n. 35376/2006), secondo la quale le minacce e le violenze rivolte verso più pubblici ufficiali si traducono in offese al “libero espletamento dell’attività” di ciascuno di essi, da ciò scaturendo più reati discendenti da una medesima azione(concorso formale di reati ex art. 81 c.p.). E’ infatti evidente che l’offesa all’espletamento della funzione pubblica è unica, ma molteplici sono le menomazioni delle libertà individuali di portare a compimento detta funzione.
L’impostazione appena menzionata viene destituita di fondamento dalla pronunzia qui annotata, la quale rinviene l’unicità del reatosulla scorta di alcuni argomenti dirimenti.
In primo luogo, si valorizza il dato della unicità dell’attività posta in essere da più pubblici ufficiali: detto altrimenti, sebbene a compiere l’atto – espressivo della funzione pubblica ad esso strettamente attinente – siano più pubblici ufficiali o più incaricati di pubblico servizio, esso va valutato come unico, poiché unica è la funzione pubblica di cui le molteplici condotte dei pp.uu. costituiscono esplicazione. La Corte afferma – pur lapidariamente – che questa argomentazione si pone in linea col tessuto letterale dell’art. 337 c.p., probababilmente conferendo pregnanza alla parte in cui esso si riferisce al compimento di “un atto di ufficio o di servizio”, a significare la stabile “unicità” di tale atto anche qualora i soggetti passivi siano più d’uno. Potrebbe altresì ritenersi che il testo della norma valga a suffragare l’esito ermeneutico cui giunge il Giudice della Nomofilachia, nella parte in cui fa riferimento a “coloro che, richiesti, gli prestano assistenza”: la norma, infatti, disciplina la resistenza come unica anche quando il pubblico ufficiale operi mediante l’assistenza di più soggetti; dunque, se la resistenza verso più soggetti che siano d’ausilio per il pubblico ufficiale (id est, più soggetti ciascuno dei quali si fa in qualche modo “portatore di funzione pubblica”) è valutata come reato unico, non si vede perché la medesima condotta – perpetrata nei confronti di più pubblici ufficiali (pure espressione della medesima funzione pubblica in un unico contesto spazio-temporale) – debba ramificarsi, ai fini effettuali, in più reati.
In secondo luogo, a suffragio dell’impostazione prescelta – per cui chi resiste avverso più pubblici ufficiali commette un singolo reato e non molteplici violazioni dell’art. 337 c.p. – viene analizzato il concetto di “dolo di concorso formale”. Più precisamente, si asserisce, la mera pluralità di soggetti passivi non vale di per sé a configurare una pluralità di reati, occorrendo un quid pluris, rintracciabile nell’atteggiamento psicologico consistente nella volontà di offendere distintamente ciascuno dei soggetti coinvolti, predisposizione psichica che non è dato rinvenire nel soggetto che si oppone a più pubblici ufficiali, in quanto il suo fine non è certo quello di opporsi a ciascuno di essi sul piano personale, bensì di opporsi alla unitaria funzione pubblica che essi esprimono contestualmente. L’argomentazione trova conforto, seppur per vie traverse, nella tesi dottrinale di stampo oggettivo, la quale fa leva, più che sul dolo di concorso formale, sulla rilevanza del bene giuridico offeso. Detto altrimenti, anche volendo seguire l’impostazione obbiettiva dottrinale, piuttosto che quella soggettiva giurisprudenziale, si arriverebbe al medesimo esito, cioè alla configurabilità di un unico reato, posto che il bene giuridico offeso è la regolare attività amministrativa, mentre la violenza/minaccia al pubblico ufficiale è qualificabile come mero “danno collaterale” assorbito dall’art. 337 c.p. (che dunque verrà in rilievo una sola volta) laddove si limiti a coincidere con le minacce semplici e/o con le percosse, e tutelabile mediante altre figure criminose (es. lesioni) laddove superi tale stadio (in questo caso dovrebbe però configurarsi il concorso formale tra il reato di resistenza e il/i reato/i posto/i in essere nei confronti della libertà morale o della integrità fisica, ndr). La tesi dottrinale consente, cioè, di analizzare la prevalenza di un bene rispetto all’altro(o agli altri): il bene giuridico principale è considerato essere il regolare svolgimento dell’attività amministrativa, mentre gli interessi tutelati ma “soccombenti” sono quelli alla libertà morale e alla integrità fisica dei pubblici ufficiali; se ciò è vero, il primo bene citato è unico anche quando vi sia una molteplicità di pp.uu., e dunque l’offesa è anch’essa unica, configurandosi un singolo reato.
In terzo luogo, viene impostata un’analisi sistematica, confrontando l’art. 337 c.p. con il seguente art. 338 c.p.: quest’ultimo sanziona come unico reato la violenza (o la minaccia) indirizzata verso un organo pubblico collettivo qualificabile come “corpo”. Se si ritenesse che la resistenza a più pubblici ufficiali configuri più reati, si finirebbe per punire più severamente un soggetto che resiste ad una pattuglia di quattro persone e più tenuamente un soggetto che impedisse ad un collegio di sette magistrati di riunirsi per una udienza. Ciò sarebbe paradossale, considerando che l’unicità del reato cristallizzata nell’art. 338 cit. non è certo stata prevista dal legislatore a causa di una sorta di benevolenza verso il reo.
La Corte di Cassazione conclude con una “clausola di apertura”, ritenendo che possano in concreto sussistere casi in cui sia riscontrabile la pluralità di reati, e segnatamente:
a) il caso in cui l’agente diriga la propria condotta offensiva verso più pubblici ufficiali, opponendosi sostanzialmente alla medesima attività amministrativa qualora i pubblici ufficiali operino in contesti che possano dirsi concretamente “separati” (es. il caso deciso da Cass. pen., sez. VI, 7 aprile 1988, n. 3546, nel quale il reo, per sottrarsi all’arresto, rispondeva al fuoco incrociato di due carabinieri posti a distanza l’uno dall’altro).
b) il caso in cui il reo rivolga la condotta criminosa verso più pubblici ufficiali per opporsi ad essi sul piano personale, relegando in subordine la volontà di ledere l’espletamento della funzione pubblica.
Cassazione Penale, Sez. VI, 15 settembre 2014 (ud. 9 maggio 2014), n. 37727