SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Appello di Torino ridusse la pena ad anni sei e mesi quattro di reclusione, confermando nel resto la sentenza 6 novembre 2007 del Tribunale di Novara, che aveva dichiarato L.M. colpevole dei reati di cui: a) all’art. 572 cod. pen. per avere sottoposto a maltrattamenti la moglie G.M. ed i figli J. e N.; b) all’art. 609 bis cod. pen. per avere, con minacce e violenza, costretto la moglie a subire plurimi rapporti sessuali; c) di cui agli artt. 624 e 625 cod. pen. per essersi impossessato, in concorso col figlio minore J., di vari attrezzi sottraendoli da un centro commerciale;
d) di cui all’art. 612 c.p., comma 2, per avere con l’uso di un machete minacciato la mogliedi ingiusto danno [1].
L’imputato propone ricorso per cassazione deducendo:
1) erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen.. Osserva che non integra il reato di violenza sessuale ma quello di maltrattamenti in famiglia la condotta del marito che, in costanza di relazione familiare, sentimentale e sessuale, imponga alla moglie prestazioni oltre il desiderio della stessa. La stessa G. ha riferito che intratteneva col marito rapporti sessuali consenzienti e che talora le erano richieste prestazioni che non gradiva (amplessi durante il ciclo sessuale, con frequenza troppo elevata). Solo in qualche caso si sarebbe opposta al marito, mentre a volte avrebbe avuto un comportamento concludente di diniego ed altre volte lo avrebbe lasciato fare. Ora, tale comportamento è un’altra manifestazione della condotta di maltrattamento. E’ infatti ipotizzabile che l’atteggiamento della donna, in costanza di normali rapporti accettati e voluti, sia stato male interpretato dall’uomo, che non voleva violentare la moglie ma solo forzare la sua ritrosia femminile. L’insistenza dell’uomo può configurare i maltrattamenti se la donna si senta sminuita e maltrattata per il mancato rispetto.
Nella specie invero la condotta del marito, che usava modalità irrispettose per ottenere prestazioni sessuali, non integra il reato di violenza sessuale perchè a tali modalità non si accompagnava una condotta violenta o minacciosa. Non vi è nessuna prova che fra i coniugi vi siano stati rapporti sessuali violenti.
2) manifesta illogicità della motivazione laddove riconosce il reato di maltrattamenti nei confronti dei figli minori per il solo fatto che gli stessi abbiano potuto assistere ai maltrattamenti del padre nei confronti della madre. La stessa Corte d’appello ammette che i due episodi contestati (lo schiaffo alla figlia e il furto con il figlio) non integrano il reato di maltrattamenti ma lo ha condannato perchè avrebbe fatto assistere i figli ai maltrattamenti nei confronti della madre. Sennonchè non vi è alcuna prova di tale circostanza, che è stata presunta sulla base della sola convivenza dei genitori con i figli, senza che vi fosse una dimostrazione che i figli avessero assistito alle scene di gelosia del padre.
Motivi della decisione
Il primo motivo è infondato.
Invero, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, “in tema di reati contro la libertà sessuale, integra la violazione dell’art. 609 bis cod. pen. qualsiasi forma di costringimento psico – fisico idonea ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto di coppia coniugale o paraconiugale tra le parti, atteso che non esiste all’interno di un tale rapporto un diritto all’amplesso, nè conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale” (Sez. 3^, 4.2.2004, Riggio, m. 228448). Inoltre “in tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti di coppia di tipo coniugale non ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali.(Nella fattispecie sì trattava di due episodi di violenza sessuale, perpetrati dal marito nei confronti della moglie – dalla quale viveva da anni separato – costretta ad incontrarlo a seguito di ripetute minacce di morte e di comportamenti aggressivi)” (Sez. 3^, 7.3.2006, Mansi, m. 234171).
Nel caso di specie la Corte d’appello, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, ha accertato che l’imputato non si era limitato – come si sostiene nel ricorso – ad usare modalità irrispettose nei riguardi della moglie per ottenere prestazioni sessuali, ma aveva messo in atto un vero e proprio regime dispotico, connotato da vessazioni, arroganza, percosse, proibizioni ed imposizioni di ogni genere, ed in particolare aveva più volte compiuto comportamenti minacciosi (anche con armi), intimidatori ed anche violenti al fine di ottenere rapporti sessuali, essendo ben consapevole (se non altro a causa della frequenza degli episodi) dell’opposizione e comunque della volontà contraria della moglie ad avere tali rapporti, la quale peraltro, pur senza opporre una resistenza fisica solo per non provocare violente reazioni da parte dell’imputato, manifestava comunque, magari anche solo con gesti, il proprio dissenso in modo inequivocabile.
E’ invece fondato il secondo motivo. La Corte d’appello, invero, ha dato atto che non risulta nemmeno ipotizzato o contestato che l’imputato avesse posto in atto violenze nei confronti dei figli. La Corte d’appello ha anche esattamente ritenuto che non potrebbero integrare il reato di maltrattamenti verso i figli, se non altro per mancanza di abitualità, i due singoli episodi contestati, se singolarmente considerati, ossia il fatto di avere schiaffeggiato in una sola occasione per futili motivi la figlia minore ed il fatto di avere costretto il figlio ad aiutarlo nell’esecuzione di furti presso un centro commerciale. La Corte d’appello ha invece ritenuto che il reato di maltrattamenti nei confronti dei figli fosse integrato dalla ripetitività degli atti vessatori compiuti ai danni della moglie perchè questi erano stati posti in essere nell’abitazione coniugale e perciò “sicuramente anche in presenza dei figli minori”, con ciò realizzando un sistema di vita che aveva arrecato anche ai figli continue sofferenze morali.
Si tratta però – come esattamente lamenta il ricorrente – di una motivazione apodittica e meramente apparente. Manca invero qualsiasi motivazione non solo sull’esistenza dell’elemento psicologico del reato (costituito dal dolo generico consistente nella coscienza e volontà di sottoporre i figli ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuato) ma anche sull’esistenza della prova che gli atti di maltrattamento nei confronti della moglie fossero diretti anche nei confronti dei figli o comunque della prova che i maltrattamenti della moglie fossero compiuti sistematicamente ed in modo abituale alla presenza dei figli e che questi avessero effettivamente ed abitualmente assistito agli atti di gelosia ed alle altre vessazioni compiuti dal padre verso la madre. La Corte d’Appello ha infatti ritenuto che gli atti vessatori in danno della moglie siano stati compiuti “sicuramente” alla presenza dei figli, ma si tratta di una circostanza solo apoditticamente ipotizzata, in ordine alla quale non viene fornito alcun elemento di prova acquisito al processo.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata per difetto di motivazione limitatamente al reato di maltrattamenti in danno dei figli con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Torino per nuovo giudizio. Nel resto il ricorso va rigettato.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Torino limitatamente al delitto di cui all’art. 572 cod. pen. in danno dei figli.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 18 marzo 2009.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 25 GIUGNO 2009