Il caso:
1. F..C. , dirigente di Enel servizi spa in servizio presso la sede di Palermo, era imputato di maltrattamenti in danno della dipendente G..D.M. , in relazione a condotte consistite tra l’altro nell’immotivata estromissione da un gruppo di lavoro, nel provocare senso di mortificazione e stress emotivo con atteggiamenti astiosi, nell’adibire a mansioni e compiti non adeguati a titoli e competenze, nell’impedimento di avanzamento a qualifica superiore.
È stato assolto in primo e secondo grado (GUP Palermo 4.2.2010; Corte d’appello di Palermo 4.5-29.8.2011) perché il fatto non sussiste.
2. Avverso la sentenza d’appello ricorrono sia la parte pubblica (per dichiarata sollecitazione della persona offesa) che la parte civile.
Ragioni della decisione
3.1 Il motivo del ricorso della parte pubblica è generico. Nulla di specifico deduce infatti sulle quindi solo assertive peculiarità del caso concreto che, se non trascurate dal Giudice d’appello, avrebbero dovuto condurre alla sussunzione delle condotte nella fattispecie dei maltrattamenti ex art. 572 c.p., nonostante le ammesse dimensioni “non familiari” del contesto di lavoro.
3.2 Il motivo di ricorso della parte civile è manifestamente infondato nelle sue varie articolazioni.
La deduzione di contraddittorietà, essenziale nell’economia dell’argomentazione del motivo quanto all’aspetto della dedotta natura “familiare” dell’impresa e del contesto lavorativo, come efficacemente colto nella memoria depositata dalla difesa dell’imputato si fonda su un palese travisamento del ragionamento svolto dalla Corte distrettuale, cui la ricorrente perviene a seguito di uno strumentale “taglio” di parte decisiva di quel ragionamento, che esprime uno specifico apprezzamento in fatto sull’irrilevanza del convivere per anni in un “open space” quale prova della “familiarità” della relazione lavorativa (p. 6 sent.). Tale puntuale apprezzamento di fatto è immune da vizi di ordine logico e la sua contestazione si risolve in preclusa censura di merito.
Del resto, sul piano logico sono proprio gli ulteriori elementi in fatto descritti dalla ricorrente (la frequentazione di riunioni, la conoscenza di informazioni sulla vita personale dei colleghi, il lavoro quotidiano nel medesimo ambiente) che si caratterizzano per l’assoluta incapacità di segnare differenze tra un “normale” ambiente di lavoro organizzato ed un ambiente lavorativo “parafamiliare”. Come argomentato in Sez.6, sent. 12571/12, ‘in definitiva, è vero che l’art. 572 c.p. ha allargato l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello solo endo-familiare in senso stretto. Ma pur sempre la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti della famiglia ed indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Da qui la ragione dell’indicazione del requisito, del presupposto, della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sotto posizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal fretto impegno del datore di lavoro per ciò solo dovrebbe configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p. di condotte che, di eguale contenuto ma poste In essere in contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza In ambito civile (il ed mobbing in contesto lavorativo, cui fa riferimento tra le altre la sentenza Sez. 6, 685/2011) con evidente irragionevolezza del sistema’.
Risulta così corretta l’Impostazione della sentenza d’appello che, dopo avere fatto propria la ricostruzione in fatto operata dalla prima sentenza, esplicitamente ricamata nella parte iniziale dell, motivazione (pagg. 1-2 e 4), ha motivatamente preso atto dell’assoluta mancanza in fatto, nel caso di specie, delle caratteristiche indefettibili per la configurazione di un rapporto di lavoro para-familiare (spiegando perché le relazioni interne ad una sede locale dell’ENEL, comunque inserita in un’azienda di grandi dimensioni e complessa organizzazione, non potessero essere ricondotte ai rapporto tra un datore di lavoro che agisce con ampia discrezionalità ed Informante ed un dipendente che ad esso “si affida fiducioso”).
Anche la formula assolutoria risulta coerente con l’Imputazione rivolta all’imputato, atteso che i Giudici del merito hanno entrambi escluso la sussistenza del reato di maltrattamenti nei termini In fatto concretamente contestati.
3.3 All’inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna della parte privata ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, equa al caso di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna la parte civile al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 in favore della Cassa delle ammende.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE – SENTENZA 8 maggio 2013, n.19760 – Pres. Agrò – est. Citterio