Molestia telefonica: sulla qualità del comportamento

La Corte di Cassazione si è pronunciata riguardo al comportamento che di fatto integra il reato di molestie via telefono.
Il Tribunale di Avellino, con sentenza del 28 maggio 2012 condannava l’imputato D.P.M. per il reato ascrittogli, previsto dall’art. 660 c.p., alla pena di giustizia con concessione delle attenuanti generiche, per avere arrecato molestie e disturbo a V.A., turbandone la tranquillità e la serenità mediante invio di messaggi e telefonate mute all’utenza telefonica mobile della stessa.

Avverso tale sentenza del Giudice di prime cure, D.P.M proponeva ricorso per Cassazione per violazione di legge e carenza ed illogicità della motivazione, adducendo che la condotta da lui posta in essere non poteva essere apprezzata come molestia e non assumeva i caratteri di lesività propri della condotta penalmente rilevante, essendosi trattato nello specifico, di n° 12 contatti telefonici senza alcun tipo di comunicazione verbale, della durata di un secondo ciascuno, venuti a cessare da parte sua dopo la ricezione dell’sms di V.A. che lo invitava a desistere da tale comportamento.

La Suprema Corte rigettava il ricorso ritenendolo infondato, data l’innegabile natura molesta delle telefonate ascrittegli. La Corte rilevava che la natura molesta di tali contatti telefonici è direttamente connessa non tanto alla qualità degli stessi (essendosi trattato di telefonate “mute”), quanto al loro numero, essendosi trattato, come d’altronde ammesso dal ricorrente, di ben 12 chiamate nell’arco di sette giorni.

Inoltre gli accertamenti effettuati in sede di giudizio di primo grado consentivano di appurare che in realtà il messaggio di testo inviato da V.A., che intimava D.P.M di cessare le comunicazioni, veniva inviato subito dopo il primo contatto telefonico, avvalorando la potenzialità molesta dei contatti seguenti che dunque costituivano una palese intrusione non gradita nella sfera personale di una persona che peraltro aveva manifestato espressamente il proprio disagio.

L’art 660 del Codice Penale rubricato “molestia o disturbo alle persone” punisce la condotta di chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, reca a taluno molestia o disturbo.

La mancata specificazione delle qualità e delle modalità che la molestia e il disturbo devono assumere ai fini della rilevanza penale della condotta, da adito ad interpretazioni contrastanti:

Da un breve raffronto con la recente disciplina del reato di atti persecutori, pare evidente che mentre l’art. 612 bis offre una definizione particolareggiata delle conseguenze della condotta di reato perseguibile penalmente, la quale deve alternativamente cagionare un perdurante e grave stato d’ansia o paura ovvero ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o a persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero tale da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita, la formulazione dell’art. 660 non offre una chiara descrizione delle modalità e delle conseguenze della molestia punita dalla norma.

La Suprema Corte, con la sentenza oggetto della presente nota, è giunta ad avvalorare  l’indirizzo prevalente affermatosi in merito all’interpretazione del parametro di rilevanza penale del comportamento molesto, confermando, nel silenzio del legislatore. che il reato di cui all’art. 660 c.p. può essere  realizzato anche con una sola azione di disturbo (Cass. Sez. I, 22 aprile 2004- 19 maggio 2004 n° 23521) .

La petulanza consistente nella pluralità delle azioni di disturbo può essere un elemento costitutivo del reato di cui all’articolo 660 c.p. e non può essere riconducibile all’ipotesi di reato continuato. (Cass. Sez. I 3 febbraio 2004- 24 marzo 2004 n° 14512)

Pare possibile evincere che ai fini dell’ascrivibilità del reato in esame, la lesività della condotta è valutata secondo diversi parametri: la qualità della molestia, nel qual caso è punito anche il singolo contatto non gradito, o la pluralità di azioni alle quali, considerate singolarmente non potrebbe attribuirsi alcuna lesività ma la cui ripetizione è elemento costitutivo del reato in quanto indebita intrusione nella sfera privata, che viene tutelata, seppur in maniera riflessa, dalla norma: invero l’interesse tutelato in primis dall’art. 660 c.p. è la tranquillità pubblica, pur estrinsecandosi la condotta, nell’offesa alla quiete privata che viene a ricevere una protezione riflessa.

Cassazione penale , sez. I, sentenza 10.05.2013 n° 20200