Il decreto approvato in data 20 febbraio 2015 dal Consiglio dei Ministri ha introdotto importanti novità in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Anche in questo caso, come era avvenuto nella legge 92/2012, il legislatore non modifica i presupposti sostanziali del recesso per motivi economici, che rimangono dunque quelli di sempre: la sussistenza di una ragione produttiva ed organizzativa (art. 3 legge n. 604 del 1966) il nesso di causalità che deve intercorrere tra la ragione e la soppressione della posizione, il così detto repechage e l’eventuale applicazione dei criteri di scelta.
La legge 92 del 2012 aveva introdotto un doppio regime sanzionatorio. Se il fatto posto a base del recesso è “manifestamente insussistente” (ad esempio: non è vero che il datore di lavoro ha dismesso una certa attività e che quindi il lavoratore che a tale attività era addetto non ha più un compito lavorativo da svolgere), il lavoratore licenziato viene reintegrato ed ha diritto ad un’indennità risarcitoria dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra, contenuta in un massimo di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto. Dall’indennità risarcitoria va dedotto quanto ricevuto per altra occupazione nel periodo di estromissione ed è previsto il versamento dei contributi previdenziali dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra.
Resta la possibilità del lavoratore di optare per un’indennità risarcitoria nella misura di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto in luogo della reintegra.
In tutti gli altri casi invece (ad esempio: è vero che il datore di lavoro ha dismesso una certa attività e quindi il posto di lavoro del lavoratore ad essa addetto viene soppresso, ma questi poteva essere ricollocato in altre posizioni analoghe per mansioni e livello) il dipendente ha diritto solo ad un’indennità risarcitoria che va da 12 a 24 mensilità della retribuzione globale di fatto con attribuzione al giudice del potere di graduare la sanzione nell’ambito predetto in relazione all’anzianità del lavoratore e tenendo conto di una serie di parametri quali: numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti, con onere per il giudice di specifica motivazione a riguardo.
Il regime introdotto dalla legge n.92/2012 è ancora vigente e continuerà ad esserlo per i lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti assunti prima dell’entrata in vigore del decreto qui commentato.
Ora invece l’art. 3 del decreto appena approvato stabilisce che se il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è illegittimo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio o, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
Il decreto segue quindi il solco tracciato dalla legge 92/2012 che già aveva ridotto i casi di reintegrazione, limitando la tutela la reintegrazione nel posto di lavoro ai casi di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, riservando alle altre ipotesi la sola tutela indennitaria.
Il nuovo provvedimento elimina qualsiasi possibilità di reintegra nel licenziamento per ragioni oggettive e, nel contempo, elimina anche ogni discrezionalità del giudice nello stabilire la misura dell’indennità risarcitoria che non è più graduabile in relazione ai parametri sopra elencati, ma è ancorata in misura predeterminata alla sola anzianità aziendale del lavoratore licenziato.
Lo schema di decreto approvato in applicazione della legge 143/2014 uniformava la disciplina dei licenziamenti collettivi a quella dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. Nonostante un’accesa disputa politica sul tema, il decreto approvato dal Consiglio dei Ministri ha mantenuto tale equiparazione. Pertanto, in base alla nuova disciplina, qualora siano licenziati lavoratori con contratto a tutele crescenti, in caso di violazione della procedura di informazione e consultazione, sindacale di cui agli artt. 4 e 24 della legge 223 del 1991 o dei criteri di scelta previsti dall’art.5 della stessa legge, troverà applicazione solo la tutela indennitaria già descritta che va da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità della retribuzione globale di fatto.
I lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del decreto saranno ancora tutelati dalla legge 92/2012 che prevedeva, quantomeno nei casi di violazione dei criteri di scelta, la reintegrazione in servizio del lavoratore licenziato.
Il decreto attuativo estende la nuova disciplina anche ai lavoratori assunti dalle imprese con meno di 15 dipendenti, dopo la sua entrata in vigore. Per questi lavoratori è esclusa la reintegrazione in caso di licenziamento disciplinare, che resta invece nel solo caso di licenziamento discriminatorio, mentre si applicano le indennità crescenti sopra previste in funzione dell’anzianità di servizio. Il loro importo tuttavia sarà dimezzato e verrà posto il limite massimo di 6 mensilità, coincidente con quello previsto dalla legge 604/1966; il minimo sarà di 2 mensilità, invece delle 2,5 attualmente previste dalla legge 604/1966.
E’ confermata l’abolizione del tentativo di conciliazione preventivo da svolgersi dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro e la sua sostituzione con una nuova procedura conciliativa, facoltativa, da svolgersi però successivamente al licenziamento. Il datore di lavoro può, entro 60 giorni dal licenziamento, offrire al dipendente un importo a titolo conciliativo esente da tasse e contributi, pari ad una mensilità per ogni anno di anzianità con un minimo di due ed un massimo di 18. L’offerta deve avvenire a mezzo assegno circolare nelle sedi di cui all’art. 2113 c.c. o presso le commissioni che certificano i contratti di lavoro presso gli enti bilaterali. L’accettazione dell’offerta implica la rinuncia ad ogni rivendicazione concernente la legittimità del licenziamento.