L’art. 51 codice deontologico forense (assunzione di incarichi contro ex clienti) oltre a tutelare l’esigenza di non far conoscere all’esterno fatti personali, che l’avvocato difensore apprenda per ragioni legate all’esercizio della sua professione, impedisce all’avvocato di divulgare e/o comunque adoperare in maniera scorretta informazioni che, a prescindere dal fatto che siano o meno note all’opinione pubblica, comunque non possono essere rivelate da un soggetto tenuto al segreto professionale.
Nel caso all’esame della Suprema Corte, un avvocato aveva assistito un lavoratore, imputato, a distanza di anni, in un procedimento penale, in cui il professionista stesso difendeva ora il querelante. Durante il dibattimento, l’avvocato in questione aveva rivolto all’ex cliente una domanda sui fatti riferibili alla causa nella quale aveva prestato assistenza.
L’ex cliente, allora, aveva chiesto al Consiglio dell’Ordine degli avvocati se tale condotta integrasse o meno l’illecito disciplinare, di cui all’art. 51 come supra citato.
Il Consiglio dell’Ordine di appartenenza censurava l’avvocato per aver violato gli obblighi di segretezza, riservatezza, correttezza e fedeltà propri dell’attività forense, in quanto la domanda rivolta all’ex cliente durante il processo penale aveva il precipuo scopo di denigrarlo, utilizzando fatti conosciuti a causa della difesa precedentemente svolta (seppur già divulgati dagli organi di stampa).
Il Consiglio Nazionale Forense confermava la decisione, sostituendo la sanzione della censura con quella meno grave dell’avvertimento, sulla base del rilievo che la diffusione della notizia del licenziamento a mezzo stampa aveva determinato una riduzione dell’offensività della condotta.
A questo punto, l’avvocato proponeva ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, la genericità del capo d’incolpazione, con conseguente lesione del diritto di difesa, “perché in esso si faceva riferimento ai fatti del 2002, mentre in quell’anno egli aveva prestato la propria attività defensionale … in due cause”.
Osservano le Sezioni Unite, però, che, come la Corte stessa ha avuto modo di chiarire in altre pronunce in materia, “nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense, la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, essendo, invece, sufficiente che l’incolpato, con la lettura dell’imputazione, sia posto in grado di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli”.
Inoltre, la Suprema Corte ha riaffermato il principio, già espresso dal CNF nel provvedimento impugnato, che fa divieto all’avvocato di divulgare e/o comunque adoperare in maniera scorretta informazioni apprese nell’esercizio della professione, ancorché già divulgate dagli organi di stampa.
Così hanno deciso le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n° 25795/13